Dopo sei mesi dall’avvio di Open Food, progetto nato nell’aprile scorso in casa Etnos con l’obiettivo di ridurre in modo significativo il divario sociale ed economico tra le persone, Isabella Riggi, volontaria che si occupa di vendita e distribuzione, si racconta alla Penna di Etnos mostrandole ciò che vedono i suoi occhi oltre il bancone da cui serve.
«Alcune cose sono cambiate rispetto all’inizio» dice Isabella, «ma il bisogno e l’imbarazzo restano comunque».Open Food apre al pubblico alle ore 12:00, dal martedì al sabato, ma già a partire dalle ore 10:30 l’uscio di Equo Food, locale che accoglie il progetto, è brulico di persone che prenotano il numero e attendono il loro turno. L’affluenza di utenti che si apprestano a prenotarsi è tale che in circa un’ora i centocinquanta pasti previsti sono quasi già terminati.
«A Open Food» continua Isabella, «non si affidano solo persone che ne hanno bisogno, ma anche persone che trovano allettante l’iniziativa, e un po’ ne approfittano, perché il cibo, superato il pregiudizio del costo di 1 euro, è di ottima qualità».
Arrivano professori, avvocati, impiegati degli uffici, operai, imprenditori, pensionati. Insomma, la concezione che Open Food sia per tutti, fulcro del progetto, sembra sia arrivata alle menti dei cittadini, ma in quali termini?
«Ci sono persone che hanno una pensione minima e stanno male fisicamente» dice Isabella, «e vengono da Open Food perché in lui trovano un aiuto per cucinare».
Isabella continua raccontando di un ragazzo che non ha dove stare e che ogni giorno viene da Open Food e «noi gli regaliamo pranzo e cena. E stiamo cercando di aiutarlo anche in altri modi». C’è anche una vecchietta colpita dai primi sintomi di Alzheimer che entra nel locale e si serve del progetto per cucinare ai suoi nipoti mentre la loro madre è al lavoro.
«Ci sono anche persone che prendono le porzioni e le congelano per non dover cucinare, oppure chi prende porzioni per i propri animali perché i croccantini costano troppo».
Open Food è dibattuto tra egoismo e altruismo, nonostante sia un luogo caldo e accogliente, dove non c’è solo il conforto economico, ma anche sociale, perché durante le ore in cui si aspetta l’apertura al servizio ogni persona lì davanti in attesa, di qualunque estrazione sociale, economica e che sia uomo, donna o ragazzo, si impegna in una reciproca conoscenza.
Dunque, il progetto ha funzionato?
«Open Food funziona bene, ma si avevano altre aspettative perché non sempre mettono le donazioni, e non tutte le persone hanno coscienza per gli altri».
Le donazioni sono a libera scelta dell’utente, e vengono destinate come fondi per la continuità del progetto. Tuttavia, su circa quaranta persone che entrano, solo tre donano; e «quelle che lo fanno sono in difficoltà economica, e lo sai perché le conosci o perché si nota, mentre quelle che potrebbero donare non lo fanno e approfittano soltanto dell’iniziativa».
Isabella racconta di una signora anziana che ogni mattina viene a Caltanissetta perché ha il marito che segue una terapia in ospedale, e intanto che lo aspetta gira per la città e si ferma da Open Food.
«Riceviamo benedizioni e sono dette dal cuore di persone vere, che sai che ne hanno bisogno e per questo apprezzano» continua Isabella dichiarando come il progetto sia utile ma allo stesso tempo c’è bisogno anche di più coscienza da parte delle persone, alcune delle quali, in diverse occasioni hanno lamentato porzioni piccole, oppure sono andare via quando ciò che era rimasto non era di loro gradimento.
Isabella guarda oltre il bancone e si rende conto delle azioni di un mondo a tratti umano e a tratti insensibile e si chiede quale sia il reale bisogno della società. E questa non è una riflessione che dovrebbe farsi solo Isabella, perché ognuno di noi dovrebbe guardare al di là del proprio bancone, al di là del proprio punto di vista e valutare prima se stessi, poi gli altri.