In una mano stringeva la tracolla della valigia, nell’altra la manina del suo bimbo.
Francesca puntava lo sguardo verso quel quadro di persone ed emozioni che l’avevano accompagnata negli ultimi tre anni, e che ora la stavano salutando, ferme e commosse sull’uscio della Casa Rifugio.
«Dove dobbiamo andare, mamma? Perché non entriamo in casa?»
«Questa non è più la nostra casa.»
«Ma io manco agli zii.»
“Zii”, il figlio di Francesca chiamava così la psicologa, l’assistente sociale e gli educatori di Casa Rosanna, perché la sua mamma gli aveva insegnato che la famiglia non è solo una questione di sangue, ma anche di scelte e di amore istintivo.
«Andiamo a casa, nella nostra nuova casa».
«Ho fame, mamma».
Anche Francesca aveva fame, ma non di cibo. Aveva fame di vita, di coraggio e di felicità; desiderava dimenticarsi quel digiuno fatto di sofferenza, odio e violenza.
Inclinò il capo di lato incastrando la vista sulla piccola figura di suo figlio; sorrise, di un sorriso speranzoso.
Un ultimo cenno di saluto, poi prese il suo bimbo in braccio, lo sistemò nel sediolino della macchina, infilò la valigia nel cofano e si mise alla guida.
Prima di accendere il motore fece un bel respiro, ricacciando indietro quelle lacrime di nostalgia che minacciavano di uscire. Aveva fame di vita, sì, ma aveva anche paura. Paura dei giorni che sarebbero nati lontani dal luogo sicuro in cui aveva vissuto da quando…
Ce l’avrebbe fatta? E se lui fosse tornato? E se non fosse stata una buona madre per suo figlio?
Troppi interrogativi che le sbranavano il cuore.
Sino ad allora, le educatrici le avevano dato una mano, seguendola e collaborando; la psicologa, anzi, la sua amica Maria Giusi, le aveva fatto capire che la colpa non era stata sua se il suo ex la trattava a quel modo, se alcuni uomini assomigliano più a dei mostri che a degli esseri umani.
E ora?
Francesca si voltò indietro, e il visino sorridente e rilassato del suo bambino la portò all’inevitabile ricordo di qualche anno fa quando, quello stesso piccolo volto, era stravolto dalle lacrime, rosso, mentre assisteva alla scena del suo papà che stringeva le mani al collo della mamma, e lei, rantolando, cercava di liberarsi.
Francesca quel giorno aveva capito; aveva trovato il coraggio di mettere fine alla sua agonia e di chiedere aiuto.
Casa Rosanna aveva accolto lei e il suo bambino, le avevano dimostrato che una seconda possibilità di vita esiste; Francesca l’aveva afferrata e si era data anima e corpo per costruire nuovi giorni, partendo dal percorso psicologico proposto dalla dottoressa Maria Giusi Cannio, continuando con l’accettare il lavoro all’interno del progetto Restart! grazie alle Borse Lavoro, dove coltivava le erbe aromatiche, e finendo con l’orgoglio provato nel riuscire ad affittare una casa propria, a comprare una macchina e a scrivere nuovi sogni e desideri.
Francesca girò la chiave nel quadro, inserì la prima e lasciò piano la frizione. Il suo bambino prese a canticchiare e lei, sorridendo, lo imitò, mentre si allontanavano da Casa Rosanna, nuovo ventre materno da cui sarebbero potuti rinascere.
Francesca lo Porto ce l’ha fatta. È riuscita a rialzarsi, a credere che esista una via d’uscita da quel tipo di amore malato che, poi, amore non è. Francesca è stata capace di chiedere aiuto, ha compreso che affidarsi a qualcuno che tiene all’altro è stato indispensabile per prendere consapevolezza che sola non era, non lo è mai stata.
Francesca ha tanti sogni e tanti progetti. Ha intenzione di realizzarli tutti, anche se la strada è traboccante di ostacoli. Il passato non esiste più, lei è una nuova persona, una donna migliore.
Nel cuore porterà Etnos, cooperativa sociale, grande famiglia che le ha concesso di ritornare a vivere. Non dimenticherà le altre donne della Casa Rifugio, nemmeno le educatrici e soprattutto, la fatica che l’hanno accompagnata lungo tutto il percorso, grazie alla quale è potuta diventare chi voleva essere.
Francesca è stata ospite di Casa Rosanna, Casa Rifugio a indirizzo segreto per donne vittime di violenza predisposa dalla Cooperativa Sociale Etnos.